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Stefano Faggin

Il formato .IQY è un formato di file decisamente inusuale e poco conosciuto: ecco perché alcuni hacker hanno deciso di utilizzarlo per diffondere dei trojan via mail, riuscendo ad aggirare anche gli antivirus più evoluti.

Questa volta la novità non è nella minaccia in sé, quanto nel modo in cui viene inviata. È infatti in atto una nuova diffusione dei classici virus trojan ma, questa volta, arrivano con allegati in formato .IQY.

Cos’è il formato .iQY

Si tratta di un Excel Web Query, un file contenente poche righe di testo, normalmente usato per importare informazioni esterne all'interno di una pagina Excel. In questo modo si ha la possibilità di aggiornare, ad esempio, dei report di Excel automaticamente dal database originale. In sintesi: agiscono come dei downloader.

Questo formato (che difficilmente si trova allegato a un messaggio di posta elettronica) non viene scansionato a dovere da molti antivirus ed ecco perché è risultato essere particolarmente vincente nella diffusione di questo trojan, chiamato FlawedAmmyy, che, se installato sulla macchina del malcapitato, permetterebbe all’hacker di prendere il controllo remoto del computer contagiato.

Lo stratagemma è sempre lo stesso: arriva una mail con il classico oggetto “Fattura non pagata” così che chi la riceve sia incuriosito e apra l’allegato. Quando si fa doppio click sul file Excel annesso al messaggio, appare un pop-up che mostra il seguente avviso di sicurezza:  

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Il messaggio dovrebbe mettere il ricevente in allarme ma, nonostante ciò, risulta che spesso questo tipo di avvisi vengano completamente ignorati e, per accelerare l’apertura del file, si tenda a cliccare distrattamente su “Enable” (Permetti), dando così avvio al processo di installazione del virus sulla macchina.

Il gruppo di pirati informatici responsabili di questa diffusione pare sia lo stesso che gestisce il botnet (cioè reti di computer infetti da malware, controllati in modalità remota) Necrus.

Raccomandiamo quindi di fare molta attenzione ogni qualvolta si riceva una mail con allegati sospetti: controllare sempre l’estensione del file e, nel caso vengano proposti messaggi come quello sopra, consigliamo di contattare subito il tecnico di riferimento.

Stefano Faggin

L'11 aprile 2018 si terrà il convegno "Privacy: il nuovo Regolamento Europeo n. 2016/679 GDPR (General Data Protection Regulation)" dell'Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Padova, con il coordinamento scientifico della COMMISSIONE DI STUDIO Antiriciclaggio e Privacy dell'ODCEC di Padova e dell'UGDCEC DI PADOVA.

Come Tecsis siamo attivi ormai da tempo nei servizi di sicurezza informatici per la compliance al GDPR e per questo supportiamo ufficialmente questa formazione.

Qui è possibile scaricare il programma ufficiale del corso.

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Cambridge Analytica

Dove potrebbe portarci lo scandalo “Cambridge Analytica”, che ha colpito Facebook per l’uso spregiudicato dei dati degli utenti, partendo dalle restrizioni del GDPR?

“Abbiamo la responsabilità di proteggere i vostri dati, e se non ci riusciamo, non meritiamo di servirvi. Ho lavorato per capire esattamente cos’è successo e come fare in modo che non succeda di nuovo. Ma abbiamo anche commesso degli errori, c’è altro da fare e dobbiamo farlo”. Così Mark Zuckerberg ha commentato lo scandalo “Cambridge Analytica” che il mese scorso ha colpito Facebook. 

Per chi si fosse perso la vicenda del caso Cambridge Analytica lo trova qui spiegata bene, per gli altri facciamo un piccolo riassunto per capire a che punto siamo.

Cambridge Analytica è una società molto vicina alla destra statunitense, fondata nel 2013 da Robert Mercer, un miliardario conservatore e legata a Steve Bannon (consigliere di Trump durante la sua campagna elettorale). Questa società si occupa di raccogliere dati e creare, grazie a un preciso algoritmo, una profilazione “psicometrica” degli utenti, sviluppando un sistema di “microtargeting comportamentale” di ogni persona, così da indirizzare loro una pubblicità altamente personalizzata.

Da dove arrivano questi dati raccolti? 

Ecco che entra in gioco Facebook. Facendo un piccolo passo indietro arriviamo al 2014, anno in cui Aleksandr Kogan sviluppò un’app, creando uno di quei test (che tutti abbiamo fatto) che profilavano la nostra personalità riconducendo ciascuno ad un “identità tipo” o, più banalmente, ad un personaggio dei Simpson. Per utilizzare quest’applicazione era necessario accedere tramite Facebook. In questo modo l’app riusciva a ricevere un’ingente quantità di dati, rispetto al semplice username e password poiché, oltre a condividere tutte le informazioni che riguardano l’utente iscritto, Facebook permetteva anche di accedere ai dati degli amici dell’utente. Circa 270 mila persone fecero il test ma, secondo il Guardian e il New York Times, i dati raccolti furono quelli di circa 50 milioni di utenti, proprio grazie alla funzionalità che permetteva di raccogliere anche i dati degli amici degli utenti che si registravano.

Tutto questo però, come dicevamo, era all’epoca perfettamente legale e consentito da Facebook.

Il problema è nato nel momento in cui Aleksandr Kogan ha condiviso (o venduto) tutte queste informazioni con Cambridge Analytica, violando i termini d’uso di Facebook. A detta dei legali di Cambridge Analytica, quando la società si autodenunciò a Facebook, dichiarando di essere in possesso di dati ottenuti illegalmente, FB non prese idonee misure, sospendendo ad esempio gli account. Almeno non fino al 16 marzo di quest’anno, ben due anni dopo i fatti.

Cosa ne è stato fatto di questi dati?

Questo il tasto più dolente della storia: pare che tutte queste informazioni siano state utilizzate per pilotare, attraverso pubblicità mirate, bot e fake news, le elezioni politiche USA del 2016 (che portarono alla vittoria di Donald Trump). Nell’estate del 2016, il comitato di Trump affidò infatti proprio a Cambridge Analytica la gestione della raccolta dati per la campagna elettorale.

Stando a un’inchiesta del Guardian, pare che Cambridge Analytica abbia avuto un ruolo analogo anche nel referendum del 2017 sulla Brexit.

Quali sono le colpe di Facebook.

Anche se apparentemente FB non ha agito in mala fede, c’è stata una deliberata negligenza nel gestire i flussi di dati trattati tramite il suo social network. Sembra proprio che sia mancata quella responsabilizzazione, o accountability, introdotta dal GDPR. 

Facebook infatti non ha una reale responsabilità editoriale, che ricade tutta su chi pubblica e questo, unito al modo in cui vengono utilizzati gli algoritmi per far circolare le notizie, potrebbe portare a un’informazione molto pilotata che non lascia traccia di eventuali finanziamenti delle singole notizie.

Tra i dati personali trattati da Facebook sono ricompresi poi anche i dati sensibili (art. 9 GDPR), ossia dati idonei a rivelare informazioni sull’appartenenza etnica, la razza, l’orientamento sessuale, la religione e l’orientamento politico. Questi dati per altro non è necessario siano dichiarati dall’utente ma possono essere “carpiti” dal social, attraverso un’analisi dei comportamenti digitali degli utenti. Informazioni molto dettagliate possono infatti trasformare una semplice profilazione in microtargetizzazione, cioè in una definizione molto specifica del soggetto che permette di inviargli pubblicità mirate, non solo in base ai suoi comportamenti ma anche alla sua persona. 

Questo procedimento non ha un mero scopo pubblicitario ma è volto anche a perfezionare l’algoritmo del social per generare un newsfeed personalizzato per ogni utente che, combinato con tecniche di UX design ereditate dal mondo delle scommesse, può generare una sorta di dipendenza verso la piattaforma, volto ovviamente ad aumentarne il profitto.Il consenso dell’utente per ottenere determinati dati però non può essere richiesto in cambio della possibilità di utilizzare un servizio: questo vuol dire che se concedo a un’applicazione le mie informazioni per utilizzarla, queste informazioni potranno essere usate solo ed esclusivamente per i fini di quella specifica applicazione. 

Siamo al punto, oggi, in cui oltre il 66% della spesa pubblicitaria online viene realizzata proprio grazie alla profilazione dei consumatori, rimane quindi da chiedersi: dopo il 25 maggio gli utenti saranno davvero più consapevoli nel fornire i loro dati? E le aziende li aiuteranno in questo processo per far sì che i cosiddetti Big data si trasformino in SMART data?

Stefano Faggin

Il percorso della PA verso una consapevole gestione dei documenti nativi digitali e delle eventuali copie sostitutive di originali analogici, è tutt'altro che segnato.

Un dato di fatto che si è confermato anche ieri in occasione dell'incontro organizzato dalla Federazione degli Ordini dei Medici e degli Odontoiatri (FNOMCeO) per la presentazione della bozza di modello di "manuale di gestione". 

In questa occasione il gruppo di lavoro, del quale fa parte il Presidente di Tecsis Stefano Faggin insieme ai rappresentanti delle segreterie degli Ordini dei Medici e all'eminente Prof. Ssa Mariella Guercio, ha cercato non solo di fornire un modello di documento, ma affrontare alcune delle tematiche più spinose.

Ne è scaturito un confronto aperto e franco sulla distanza che attualmente esiste tra quello che richiederebbe il quadro normativo e quello che di fatto accade nella quotidianità degli uffici.

Il dato che emerge forte è la grande centralità del personale amministrativo chiamato non solo ad applicare norme ma a padroneggiare tecnicismi informatici spesso troppo lontani dal proprio percorso formativo e vissuto professionale. Formazione e riqualificazione sono quindi due elementi fondamentali e ormai non più procrastinabili.

Un’evidenza che ha colto il nuovo segretario della FNOMCeO, il Dott. Monaco, in chiusura dei lavori della giornata, che si tradurrà presto in una collaborazione con ANAI (Associazione Nazionale Archivistica Italiana), per la realizzazione di alcuni eventi formativi per gli Ordini dei Medici ma che si aprirà poi anche alle altre professioni.

Tutto ciò che riguarda l'applicazione della digitalizzazione è ancora in una fase di studio e, come gruppo, siamo attivamente coinvolti nell'approfondire la materia al fine di proporre modelli e soluzioni coerenti con la norma ma senza dimenticare i principi archivisti che stanno alla base di una corretta gestione e sedimentazione documentale, in un contesto moderno che ruota intorno al protocollo informatico. To be continued…

Arrivano i voucher per la digitalizzazione per le PMI: 3 cose da sapere

Sono disponibili i voucher per la digitalizzazione per le PMI italiane. Vediamo cosa sono in tre semplici punti.

1. Cosa sono i Voucher per la digitalizzazione delle PMI

I “voucher digitalizzazione” sono contributi che lo Stato mette a disposizione per le PMI, che possono andare a coprire il 50% delle spese sostenute per modernizzare le infrastrutture tecnologiche dell’organizzazione. L’importo non può essere superiore ai 10.000 €. 

Rientrano infatti tra i costi ammissibili l’acquisto di hardware e software soecialisti che consentano di:

- modernizzare l'organizzazione del lavoro, attraverso l'utilizzo di strumenti tecnologici per rendere il lavoro più flessibile (ad esempio il telelavoro);

- disporre della connettività a banda larga e ultralarga o del collegamento alla rete con la tecnologia satellitare;

- sviluppare soluzioni di e-commerce;- realizzare interventi di formazione del personale nel campo ICT;

- migliorare insomma l’efficienza aziendale.

2. Per chi sono

I voucher possono essere richiesti dalle piccole e medie imprese italiane, con qualsiasi regime contabile, iscritte al registro delle Imprese e dai liberi professionisti o titolari di partita IVA ma solo se iscritti, anche loro, al registro delle Imprese. La semplice iscrizione all’albo professionale non è quindi sufficiente per richiedere l’agevolazione. 

Non possono invece usufruire del Voucher Enti o associazioni anche se registrate presso il REA.

3. Come funzionano

Le domande per richiedere il voucher possono essere presentate dalle ore 10,00 di oggi, 30 gennaio 2018, fino alle 17,00 del 9 febbraio 2018.

Le richieste possono essere fatte esclusivamente online, sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico, accendendo nell’apposita sezione “Accoglienza Istanze” e cliccando sulla misura “Voucher per la digitalizzazione”.

Per accedere è richiesto il possesso della Carta Nazionale dei Servizi e di una casella mail PEC.Si fa comunque presente che non è previsto un ordine cronologico per l'attribuzione del voucher. Nel caso in cui le risorse disponibili a livello regionale non siano sufficienti a coprire tutte le richieste pervenute da parte delle organizzazioni, è prevista una procedura di riparto delle risorse finanziarie in proporzione alle richieste delle imprese.

Per un supporto tecnico relativo all’accesso alla procedura informatica e alla compilazione delle istanze scrivere a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. oppure chiamare al numero 06-64892998.

La profilazione dei dati e il GDPR

Cosa cambia nella gestione del nostro CRM aziendale? Ecco come dovremo raccogliere i dati dopo il 25 maggio 2018.

Il GDPR è sempre più alle porte e ogni tipo di organizzazione ne sarà colpita in modo più o meno significativo.

Per vendere, si sa, servono contatti e poco importa se vengano da un biglietto da visita recuperato a una fiera o dall’iscrizione alla newsletter, tutti i dati raccolti vengono diligentemente schedati nel CRM aziendali per poi essere utilizzati per il fine per cui sono stati raccolti: la pubblicità.

Il Regolamento definisce l’attività di profilazione come “l’analisi di dati cui fa seguito un’azione automatica che non richiede l’intervento dell’uomo”.

La tutela dei dati personali è il cuore del nuovo regolamento. Tra tutte le novità che il GDPR propone infatti, ben quattro sono incentrate sui diritti dell’interessato, diritti che escono quindi rafforzati da una riforma che conferisce al singolo utente un controllo maggiore sulla propria privacy, attraverso:

• La necessità di un consenso esplicito al trattamento dei dati personali

• Il diritto di portabilità dei dati da un prestatore di servizi a un altro• Il diritto all’oblio, alla cancellazione e alla rettifica

• Il diritto di obiezione 

• L’accesso facilitato dell’utente ai propri dati personali

Non è però tutto: le nuove informative sul trattamento dei dati fornite dai responsabili del trattamento dovranno essere chiare, complete e comprensibili.

Questo si riflette in primis sull’acquisizione di dati per il reparto marketing/commerciale delle aziende.

Il nuovo testo normativo abbandona l’approccio strettamente formale del passato, basato su una dichiarazione specifica al consenso; il testo della riforma europea lascia spazio invece a un tacito consenso (comportamento concludenti, come ad esempio accettare l’utilizzo del dato “indirizzo” da parte di Amazon affinché spedisca la merce acquistata). 

Per tutti gli altri tipi di trattamenti invece rimane necessaria l’approvazione dell’interessato a un’informativa completa e chiara.

Sarà vietato al contrario l’invio di messaggi a indirizzi presi da elenchi pubblici oppure comprati.

D’obbligo anche il consenso per i contatti acquisiti da elenchi professionali. 

Rifacendosi alla definizione di profilazione del Regolamento quindi, possiamo evincere che l’elaborazione, anche con strumenti informatici, effettuata da una persona (per coordinare e assodare le informazioni prima del loro uso) non rientrano in questa definizione. Ciò non porterebbe pertanto all’obbligo di ottenere un consenso informato.

GDPR e Accountability: alla base del regolamento c’è la Responsabilizzazione

Il nuovo Regolamento Europeo sulla protezione dei dati personali si basa sul principio dell'Accountability: ma cos'è questa responsabilizzazione?

Alla base del GDPR possiamo collocare il principio dell’accountability (“responsabilizzazione” in italiano), un principio per cui l’intera responsabilità del singolo dato, è sulle spalle di chi quel dato lo richiede, per fini più o meno necessari, e che dovrà non solo essere il più trasparente possibile circa l’utilizzo che ne farà, ma anche garantire la massima protezione, aggiornata in modo continuativo, di tutte le informazioni personali in suo possesso.

All’art. 5 il GDPR individua infatti il Titolare del trattamento, un soggetto che deve garantire il rispetto de principi proposti dalla disciplina di protezione dei dati personali, quali quelli di trasparenza, di liceità, di limitazione delle finalità e della conservazione, correttezza, riservatezza e integrità.

Oltre a dover affermare tutti questi principi, il Titolare del trattamento dovrà poter comprovarli: non sarà sufficiente infatti assicurare di aver attuato misure tecniche e organizzative di protezione, sarà anche necessario poter dimostrare, di fronte a un’autorità competente, quali misure sono state adottate, perché e a seguito di quale analisi.

Questi provvedimenti inoltre dovranno essere sempre aggiornati e monitorati e questi processi dovranno essere supervisionati dalla figura del DPO che però, salvo in casi di comprovato inadempimento, non avrà nessuna responsabilità sull’uso improprio, del furto o di qualunque cosa capiti a questi dati, sarà responsabile solo il Titolare del trattamento.

Cosa cambia quindi dal Codice Privacy? Innanzitutto mentre il Codice prevedeva, nell’Allegato B, delle misure minime di sicurezza, il GDPR non fornisce alcuna indicazione a riguardo e lascia al Titolare l’onere di individuare di volta in volta, quelle adeguate.

Tutto questo riconduce, come dicevamo, al principio cardine del GDPR: l’Accountability.

Un brusco cambio di prospettiva che prevede che tutta la responsabilità di ciò che accadrà ai dati delle persone, sia di chi li detiene per i più svariati scopi. 

Che i dati vengano utilizzati per gestire la salute del cittadino, per fornirgli un servizio da lui richiesto o per mere finalità pubblicitarie, poco importa al Garante: se li richiedi, devi garantire a chi te li dà la massima protezione, aggiornata e monitorata. 

Ormai lo sappiamo infatti: i dati personali sono il nuovo “oro nero” ed è fondamentale che chi voglia ricavare un guadagno da queste informazioni, sia anche responsabile e consapevole di ciò che sta utilizzando. 

I nostri dati siamo noi e per noi ed è giusto quindi pretendere, da chi vuole utilizzare un pezzetto di noi, la massima protezione di tutto ciò che ci riguarda.

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